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Il cambiamento non chiede permesso: intervista a Rudy Bandiera

Anchorman, presentatore, autore, divulgatore, content creator, docente, gamer (sì, anche quello). L’elenco potrebbe continuare, ma è inutile provare a mettere un’etichetta su Rudy Bandiera: non esiste un nome che racchiuda la pluralità di esperienze e competenze di una persona che ama definirsi “un mix tra Alberto Angela e Fiorello”. 

Come relatore ha preso parte a decine di eventi prestigiosi come TEDx Bologna, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati ed è stato il presentatore/anchorman di eventi Google, Accenture, Oracle, Randstad, Confindustria, per citarne solo alcuni. È stato indicato da Wired tra i cinquanta italiani da seguire su Twitter.

Non è un fan di giacca e cravatta, ama camminare mentre parla, riesce a catturare l’attenzione degli ascoltatori e mantenerla per ore intere, alternando contenuti di alta qualità al puro e piacevole intrattenimento. Una leggerezza calviniana che non è mai superficialità, ma è in grado di generare valore anche nelle pause. 

Chi ha preso parte alla terza tappa dell’Alambicco Tour 2021 ha avuto modo di conoscerlo e ascoltarlo. 

La sua storia d’amore con i social è iniziata esattamente con la nascita dei social. “Ho sempre pensato di avere qualcosa da dire, da raccontare –  spiega Rudy – qualcosa che per le persone poteva avere un valore: le mie esperienze, i miei pensieri. La voglia di condividere mi ha spinto a cominciare, perchè alla fine la condivisione delle esperienze ha un valore che va al di là delle parole.

Quando sono arrivati i social ho pensato che fosse una sorta di panacea! Era quello che aspettavo da sempre ma che non c’era mai stato. Nel 2006 mi sono avvicinato in maniera professionale a questo mondo, semplicemente per un motivo: prima questo mondo non esisteva.” 

È nei primi anni Duemila che nasce infatti il suo blog, RudyBandiera.com considerato tra i cinquanta più influenti in Italia. Rudy comincia a scrivere di comunicazione, poi subito dopo anche di social network e digitalizzazione. Prima dell’avvento dei social, il blog si presentava come unica maniera per diffondere i propri contenuti, e lui è tra i primi a utilizzarlo. Da allora ha avviato progetti nell’ambito del digital marketing ed è diventato consulente per professionisti e aziende che volevano cogliere le opportunità delle nuove tecnologie.

Creare contenuti, argomento a cui Rudy ha dedicato anche un libro dal titolo “Crea contenuti efficaci. Il mio metodo spiegato a tutti”, è un’attività che richiede tanto impegno, ma anche tanta responsabilità. Per farlo, dice, occorre fare due cose: 

  1. Allenarsi. “Creare contenuti è come fare ginnastica: più lo fai, più riesci a farlo, più li vedi ovunque. All’inizio è importante trovare delle fonti che siano in grado di ispirarci, che siano vicine al nostro punto di vista, ai nostri valori e a quello che facciamo di mestiere.”
  1. Cambiare mindset. È collegato al primo, anzi ne è conseguenza. L’allenamento permette di scovare spunti da tutto ciò che abbiamo intorno, trovando anche il coraggio per raccontarsi e condividere le proprie idee. Non basta, infatti, riportare i fatti: occorre fornire una visione personale delle cose. Chi ci legge o ascolta vuole sapere come la pensiamo, come interpretiamo un fenomeno sociale o social, e per creare contenuto di valore dobbiamo informare e al tempo stesso fornire il nostro punto di vista. 

Il percorso è trovare una fonte, lasciarsi ispirare, interpretare quelle informazioni alla luce della tua personalità e dei tuoi valori e generare infine un contenuto che sia utile a chi legge, perché se non è utile non stiamo parlando di contenuto. Ed è questa utilità che marca la differenza tra personal branding e culto della personalità. 

“Il culto della personalità è quello di chi ha fatto della sua immagine un’immagine di culto, da Stalin a Saddam Hussein, passando per tutti i grandi leader carismatici che ricordiamo. Si tratta di una comunicazione verso gli altri ma incentrata su se stessi. 

Il personal branding, invece, è una comunicazione fatta da te per gli altri. È completamente diversa. Non è fatta da te per te stesso. 

Ogni volta che crei un contenuto devi chiederti: ma quello che sto scrivendo, in qualche modo, andrà ad arricchire qualcuno o farlo ragionare, o accendere una scintilla in lui o lei? Se la risposta è sì, bene. Se è no, stai scrivendo qualcosa che non serve a nulla.” 

I social rappresentano un potente strumento di personal branding al servizio di imprenditori di tutte le età che vogliono connettersi con il mondo esterno. 

“Perchè bisogna utilizzare i social media per fare personal branding? Per una semplice ragione: vende più una faccia che un logo, specie nella PMI. Il personal branding serve a umanizzare il tuo prodotto o servizio, a passargli dentro i tuoi valori aziendali, quelli che sono parte di te.”

Una persona riesce a far passare dei valori attraverso le proprie esperienze che un un logo fa molta più fatica a trasmettere. 

“Bisogna sforzarsi di fare personal branding perché in questo modo l’imprenditore diventi una sorta di marchio della sua stessa azienda, senza essere un accentratore.

Sei tu che diventi garante del lavoro della tua azienda. Tutto questo è facile? NO.

Se cominci da zero parti da chi sei e dal tuo prodotto. Per quanto riguarda il canale, credo che LinkedIn sia sempre il canale migliore, ma un’analisi strategica alla base è sempre necessaria.”

Qual è la cosa più bella del tuo lavoro? 

“Il fatto che il mio lavoro mi costringa a stare al passo con i tempi, per un insieme di cose e situazioni. Il fatto di esserne costretto diventa sistema di lavoro: trovare le fonti giuste, seguire le persone giuste, confrontarmi con le persone giuste diventa estremamente stimolante perché l’obbligo lavorativo si trasforma in piacere intellettuale.” 

Il bello dei social (forse) è racchiuso proprio nella continua evoluzione di paradigmi, canali e linguaggi; un magma che si rifiuta di cristallizzarsi e a cui bisogna prestare perennemente attenzione. 

Dopo questi ultimi due anni potremmo chiederci: come sarebbe stato vivere una pandemia globale senza i social network? 

“Senza andare molto lontano, basterebbe immaginare se tutto ciò fosse successo nei primi anni ‘90. Sarebbe stata un’ecatombe, da tutti i punti di vista. Tutti i lavori si sarebbero fermati. Non uno, tutti. Senza Internet non avremmo avuto neanche la tanto odiata DAD, che comunque ha permesso di non perdere due anni di scuola. Chiusi in casa, senza i social, avremmo eliminato i nostri partner – ride – ma anche figli, cani, pappagalli. Internet ci ha dato la possibilità di chattare, ascoltare, guardare tutto quello che volevamo. La tecnologia è una benedizione e come tale può essere utilizzata in mille modi diversi.” 

A proposito. Quali sono le tecnologie che cambieranno il nostro futuro?

“Nel mio libro Rischi e opportunità del web 3.0 e delle tecnologie che lo compongono del 2014, edito da Dario Flaccovio Editore, ne ho inserite 8:

  1. Mobile Internet
  2. Intelligenza artificiale
  3. Internet delle cose
  4. Cloud
  5. Robotica
  6. Nanotecnologie
  7. Big Data
  8. Social Network

Sono ancora convinto di questo elenco ma credo che alcune facciano fatica a decollare. Fino a quando ci sarà un impedimento tecnico o tecnologico, fino a quando chiunque non potrà utilizzarle senza problemi, resteranno tecnologie del futuro e non del presente. Credo tantissimo nella sinergia tra le diverse tecnologie, ad esempio Realtà Aumentata e Realtà Virtuale. 

Le nanotecnologie, quelle di cui forse siamo meno consapevoli, potranno far fare balzi incredibili all’umanità.”

Il cambiamento, però, non è legato solo alla tecnologia, ma anche e soprattutto al mindset

“Esatto, è l’unico grande tema, in realtà. Il cambiamento in sé può essere una figata oppure no, dipende da come lo vivi. Resta il fatto che tu non puoi cambiare le cose che già stanno accadendo, puoi solo scegliere come adeguarti perchè comunque accadranno. 

È quello di cui abbiamo parlato durante la terza tappa del Tour Alambicco: se Ned Ludd invece di spaccare un telaio avesse imparato a usare la spoletta mobile, lo ricorderemmo diversamente. È prima una questione di mindset, poi di know-how.” 

Il mindset cambia e si modella nel corso degli anni, e questa non sempre è un’operazione semplice. “All’imprenditore spetta l’onere di ricercare più confronti possibili con l’esterno, perché stimoli maggiori ti permettono di cambiare e plasmare il tuo mindset più in fretta. In questo il confronto generazionale può aiutare molto. I giovani sono più portati al cambiamento, si adattano più facilmente e possono affiancare i genitori nel percorso, sempre che vengano ascoltati. Resta il fatto che il cambiamento deve arrivare da dentro, nessuno può convincerti di qualcosa che non vuoi fare o di cui pensi di non avere bisogno.”

Per concludere possiamo dire che per aprirsi al digitale bisogna prima di tutto chiudere le porte al pregiudizio. 

Accogliere ogni novità con la curiosità di chi vuole comprendere il mondo senza preconcetti, seppur con fatica, è il primo passo per portare innovazione nella propria azienda. 

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